Il 23 maggio saranno venticinque anni che Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre uomini della scorta venivano uccisi dal tritolo della mafia all’altezza di Capaci. Lo celebreranno, Falcone. Fiumi di parole, discorsi, dichiarazioni. Nessuno parlerà di come lo trattarano quando era in vita Falcone
Palazzo di Giustizia di Palermo era – come è – quel grande edificio di stile razionalista, progettato dagli architetti Ernesto e Gaetano Rapisardi negli anni Trenta del Novecento, nel solco e nella tradizione della corrente tipica del regime fascista.
L’appuntamento è per la tarda mattinata, mezzogiorno. All’entrata un usciere mi indica un corridoio sulla destra. Alla fine del corridoio una stanza, un tavolo, un poliziotto che da ore non deve aver chiuso occhio e ora, crollato, dorme. Sonno profondo, tutto il mio tossicchiare è vano. Mi siedo in un angolo, attendo. Penso: potrei metterci una bomba, mettermi a sparare, portare via qualcosa, indisturbato. Passano i minuti, il poliziotto torna in sé. “Lei che cosa fa qui?”, domanda ancora assonnato. “Ho un appuntamento con il dottore”.
“Il dottore”, fa il poliziotto, “è dovuto andare di corsa, c’è stato un delitto; farà tardi…”.
“Non importa. Se posso lo attendo…”.
“Faccia pure”. Il poliziotto non mi degna di uno sguardo. Non mi chiede documenti, non si preoccupa di quello che posso avere con me; neppure chiede perché voglio vedere e parlare con il “dottore”.
Devo avere un aspetto molto rassicurante, penso. Oppure…
Un paio d’ore dopo, il “dottore” arriva. Chiede scusa per il ritardo, non c’è stato un delitto, c’è stata una strage, hanno fatto fuori tre donne, Leonarda, Vincenza e Lucia, la madre, la sorella e la zia di Francesco Marino Mannoia, il “chimico” di Cosa Nostra capace di trasformare quintali di morfina base in miliardi. Qualcuno ha saputo che aveva cominciato a “cantare”, e uccidendo le tre donne ha provato a farlo tacere.
Il “dottore” è stanco, sono ore che è sotto pressione. “Se vuole, rimandiamo”, propongo. “No, cinque minuti per un caffè e parliamo”.
E’ Giovanni Falcone, il “dottore”, e quella è la prima volta che lo incontro, che gli stringo la mano. Mi concede il pomeriggio, per parlare di mafia, e per spiegare quello che per lui è chiarissimo e a me risulta oscuro.
Lo incontrerò poi altre volte; una volta al Consiglio Superiore della Magistratura; altre volte in scali d’aeroporto: a Zurigo, a Sofia, a Parigi. Lui era già all’Ufficio Affari penali, portatovi dal ministro della Giustizia Claudio Martelli, dopo che a Palermo per Falcone l’aria si era fatta irrespirabile: per colpa dei mafiosi, ma anche a causa del lavoro ai fianchi di tanti colleghi magistrati che lo vedevano come polvere negli occhi. Ogni volta la promessa di vederci con calma, per sapere qualcosa di più di una famiglia mafiosa che da sempre mi intriga, il clan dei Caruana-Cuntrera, partiti da Siculiana e ora sparsi in mezzo mondo, droga e ogni sorta di “affari” purché procurino denaro.
Perché questi ricordi? Tra qualche giorno saranno venticinque anni che Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, tre uomini della scorta (Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo, Vito Schifani), venivano uccisi dal tritolo mafioso fatto esplodere all’altezza di Capaci.
Lo celebreranno, Falcone. Fiumi di parole, discorsi, dichiarazioni. Avesse la possibilità di vedere quello che accadrà, ne sorriderebbe: quel suo sorriso ironico, accompagnato magari da una scrollata di spalle.
Un anno indimenticabile, il 1992: ad Agrigento la mafia ha già ucciso Giuliano Guazzelli, detto il “mastino”; e poi l’esecuzione del discusso parlamentare democristiano Salvo Lima; e altre volte toccherà andare: per la strage di via D’Amelio, dove è il fraterno amico di Falcone Paolo Borsellino, ad essere ammazzato; e poi l’intoccabile Ignazio Salvo… Un altro poliziotto di valore, Rino Germanà, si salva miracolosamente a settembre, dai colpi di kalashnikov esplosi da Leoluca Bagarella… Una interminabile stagione di sangue e di piombo, come se qualcuno, d’un tratto volesse liberarsi di “amici” ormai diventati ingombranti, pericolosi; e di avversari che coniugavano sapere, capacità di capire, irriducibile impegno perché legge e diritto non siano parole prive di senso.
Con l’avvicinarsi al 23 maggio sarà un crescente coro di “bravo”, “sagace”, “unico”. Falcone, beninteso, era davvero bravo, sagace; purtroppo unico: siciliano di quella Sicilia dolente e consapevole che conosce il sugo del sale, a cui tutti devono gratitudine; ha onorato il nostro paese nel mondo, e il mondo ci ha invidiato. Si leggeranno e si ascolteranno tante cose di e su Falcone. Molto si preferirà tacerlo, dimenticare, omettere. Non per caso.
Un passo indietro: 21 giugno 1989. Sugli scogli davanti a una villa sull’Addaura, affittata per trascorrere qualche giorno di vacanza in pace, si scopre una borsa imbottita di candelotti di tritolo. Falcone è assieme a due colleghi svizzeri; l’attentato è fissato per il giorno prima, ma Falcone improvvisamente cambia programma. Lo sanno pochissime persone. Un attentato, dice Falcone, concepito da menti raffinatissime. Ma c’è chi giunge a insinuare che l’attentato lo ha organizzato lo stesso Falcone, per farsi pubblicità.
Tommaso Buscetta, quando decide di “pentirsi” e raccontare le sue verità, a Falcone dice: “Dottore, l’avverto: cercheranno di distruggerla, fisicamente e professionalmente. Il conto che apre con Cosa Nostra non si chiuderà mai”.
Cosa Nostra, paziente, aspetta. Aspetta e uccide: fa il vuoto attorno a Falcone. Cade Beppe Montana, capo della sezione latitanti; cade Ninni Cassarà vice-dirigente della squadra mobile… Per paura di nuovi attentati Falcone, Borsellino e le loro famiglie vengono trasferiti all’Asinara; lì come carcerati, unico svago qualche bagno di sole, concludono l’istruttoria del maxiprocesso. Alla fine lo Stato presenta il conto: 415mila 800 lire a testa per il pernottamento, 12.600 lire al giorno.
Il maxiprocesso si conclude con 360 condanne. Quando il capo dell’Ufficio istruzione di Palermo Antonino Caponnetto considera finita la sua missione e va in pensione, sembra naturale che al suo posto sia nominato Falcone. La maggioranza del Consiglio Superiore della Magistratura fa valere il criterio dell’anzianità e non della competenza, e nomina Antonino Meli, magistrato con scarsissima esperienza di mafia. A favore di Meli e contro Falcone, votano anche due dei tre componenti del CSM eletti nelle liste di “Magistratura Democratica”. Uno dei due, Elena Paciotti, poi viene candidata ed eletta dal PCI al Parlamento Europeo. Meli, appena insediato, smantella il pool, teorizza che tutti devono fare di tutto. Falcone si deve occupare di indagini su scippi, borseggi, assegni a vuoto. Borsellino, l’amico fraterno, si ribella, rilascia interviste con accuse di fuoco. Finisce a sua volta sul banco degli accusati, costretto a doversi difendere al CSM.
Falcone è sempre più solo. Si candida ad Alto Commissario per la lotta antimafia; lo bocciano. Si candida al CSM, i suoi stessi colleghi non lo votano. E’ la stagione delle lettere anonime del “corvo”: è accusato di gestione discutibile e disinvolta del “pentito” Salvatore Contorno. Il culmine si raggiunge quando Leoluca Orlando e altri leader della Rete, lo accusano di tenere nei cassetti la verità sui delitti eccellenti. E’ costretto a una umiliante difesa al CSM. Alla fine accetta la proposta del ministro della Giustizia Claudio Martelli di dirigere gli Affari penali a Roma. Lo accusano di diserzione. Sono in pochi a difenderlo: Martelli e i socialisti; Marco Pannella e i radicali…
Infine la procura nazionale antimafia: nasce da un’idea dello stesso Falcone, un organismo con il compito di coordinare le inchieste contro Cosa Nostra. Lui è il naturale candidato, il CSM lo boccia ancora una volta. Gli viene preferito Agostino Cordova, procuratore capo di Palmi, uno di quei magistrati che aveva firmato un documento, assieme ad altri decine di colleghi, in cui si individua la Procura Antimafia come un pericolo per l’operato e l’indipendenza dei magistrati. Alessandro Pizzorusso, componente “laico” del CSM designato dall’allora PCI, firma sull’“Unità” un articolo che grida vendetta: in pratica si dice che Falcone non è affidabile, sarebbe “governativo”, avrebbe perso le sue caratteristiche di indipendenza.
Quando, il 23 maggio viene ucciso, anche Borsellino, l’amico di sempre capisce che anche per lui il tempo è scaduto. Il 13 luglio rivela: “So che è arrivato il tritolo per me”. A due colleghi magistrati confida, in lacrime: “Non posso credere che un amico mi abbia potuto tradire”. Il 19 luglio, due minuti prima delle 17 un’autobomba lo uccide a via D’Amelio assieme ai cinque uomini della scorta. Andava a trovare la madre.
Diceva Falcone: “Abbiamo poco tempo per sfruttare le conoscenze acquisite; poco tempo per riprendere il lavoro di gruppo, poco tempo per riaffermare la nostra professionalità. Dopodichè tutto verrà dimenticato. Di nuovo scenderà la nebbia. Perché le informazioni invecchiano e i metodi devono essere continuamente aggiornati”. Palermo è davvero la città irredimibile di cui parlano Leonardo Sciascia e Gesualdo Bufalino? C’è una frase di Falcone che invita ciascuno a fare il proprio dovere, la prima resistenza contro il potere e la violenza mafiosa.
Sciascia con largo anticipo comprende come stanno le cose, e indica una strada. Eppure per qualcuno lo scrittore coltiva l’idea che la mafia non sia “quell’organizzazione pericolosa che Falcone aveva scoperto”. Davvero? Proprio Falcone non era d’accordo: intervistato da Mario Pirani per “La Repubblica” nell’ottobre del 1991, il magistrato dice di aver sempre considerato Sciascia un grande siciliano, profondamente onesto. In altre occasioni sostiene di essersi formato anche attraverso i suoi libri. Quel Falcone che una volta morto tutti celebrano, e che quand’era vivo veniva accusato di aver “disertato”, di aver lasciato il palazzo di Giustizia di Palermo per un “comodo” posto di Direttore agli Affari Penali a Roma, di essersi venduto ai socialisti.
Istruttiva la lettura di un brano del libro “I disarmati” di Luca Rossi. Riporta una cruda “riflessione” ad alta voce di Falcone: “…Il fatto è che il sedere di Falcone ha fatto comodo a tutti. Anche a quelli che volevano cavalcare la lotta antimafia. Per me, invece, meno si parla, meglio è. Ne ho i coglioni pieni di gente che giostra con il mio culo. La molla che comprime, la differenza: lo dicono loro, non io. Non siamo un’epopea, non siamo superuomini; e altri lo sono molto meno di me. Sciascia aveva perfettamente ragione: non mi riferisco agli esempi che faceva in concreto, ma più in generale. Questi personaggi, prima si lamentano perché ho fatto carriera; poi se mi presento per il posto di procuratore, cominciano a vedere chissà quali manovre. Gente che occupa i quattro quinti del suo tempo a discutere in corridoio. Se lavorassero, sarebbe molto meglio. Nel momento in cui non t’impegni, hai il tempo di criticare: guarda che cazzate fa quello, guarda quello lì che è passato al PCI, e via dicendo. Basta, questo non è serio. Lo so di essere estremamente impopolare, ma la verità è questa…”.
Tutto questo difficilmente sarà ricordato e raccontato.
La Voce di New York